lunedì 15 ottobre 2012

L'EDITORIALE DEL NUMERO 1


Ripropongo l'editoriale del n° 1 de "La Taverna di Auerbach".
Chissà che non si riesca a riaprire un dibattito !

Quando nel 1530 Heinrich Stromer, per gli amici Auerbach, costruiva a Lipsia la sua famosa taverna non immaginava che un giorno sarebbe capitato, proprio lì, il notissimo mago Johann Faust, di cui tanto si parlava.
Da secoli era sulla bocca della gente, ma nessuno lo aveva mai riconosciuto. Ad alcuni piaceva contar fole su di lui e i più amavano ascoltarle, tanto che presto altri mandò per scrivere e per pubblicare. Ne vennero fuori i Faustbucher famosi, poi il resto che sappiamo.
Ma torniamo alla taverna.
Fu propri lì che l’aguzzo Mefistofele condusse Faust e fu lì che da un unico tavolo videro zampillare vini diversi. Fu da lì che, cavalcando la botte, i due sfrecciarono sulle teste di tutti, perdendosi nel cielo della città.
Qui, ora, è la letteratura, quella imprevedibile nelle sue mosse, che cavalca la botte, che stupisce con i suoi voli iperbolici, che sfida ogni legge fisica. È lei che si trascina dietro il vecchio mago, amante del rischio, che, serrate le gambe sulle doghe e infilate le unghie sotto i cerchi, gioisce ogni volta che un limite è infranto.
D’altra parte, quale luogo migliore della taverna per il rituale della trasgressione? “…della trasgressione linguistica, della meta narrazione, della canzonaccia stravagante, della favola in versi, della ballata oscena – come scrive Stefano Docimo in una recente lettera –. In questa oscura bettola ci siamo ri/trovadorizzati, cogliendo lazzi più che margherite inermi. Il luogo dove la materia linguistica sfrigola e arde, consumandosi fino allo spasimo”.
Direi, ancora: il luogo dove suoni e voci si mescolano a luci ed ombre, a gesti, a colori, ma anche a sapori e odori. Luogo sin estetico per eccellenza, dove qualsiasi mezzo è buono per comunicare.
Sono stati in molti, in passato, fuori dall’ufficialità di marca aristotelica, a non credere a confini netti tra le arti; ma, oggi, tutti possono constatare che espressione e comunicazione, artistica e non, sono ampiamente intertestualizzate; d’altra parte non si può perseguire in arte e letteratura un purismo tecnico, tanto anacronistico quanto sterile, quando le tecnologie strumentali segnano sviluppi vorticosi e sorprendenti.
“Non vi è nulla di più poetico che tutte le transizioni e le miscele eterogenee”, scriveva Novalis. Alla poesia, prima transmelializzata, poi multimedializzata, si aprono interessanti orizzonti intermediali su cui distendere, al di là di qualsiasi accidentalità, una intertestualità cosciente, una polidimensionalità di progetto; anche se sulla scorta di una griglia progettuale, saranno poi l’inatteso, l’insospettato, l’imponderabile, l’inconseguente ad agire; anche se i nostri cervelli vogliono lavorare senza che si dica loro come; anche se “L’arte del poeta è probabilmente soltanto l’uso arbitrario, attivo, produttivo dei nostri organi”, come Novalis ancora annotava; anche se, sull’altro versante, “l’essenza della cosa sta in una conoscenza senza preciso conoscere”, come suggerisce Raffaele Manica negli Altri discorsi di questo primo numero. Egli, parlando nientemeno che di poesia e di tiro con l’arco, riporta inoltre il seguente passo di Eugen Errigel: “Tutto questo, arco, freccia, bersaglio e Io si intrecciano tra loro in modo che non so più come separarli. E persino il bisogno di separarli è scomparso. Perché non appena prendo l’arco e tiro, tutto diventa così chiaro e naturale e così ridicolmente semplice”:
Insomma, ci interessa la struttura materica dei linguaggi, ci interessa la materialità testuale, ma anche la sperimentazione di tutte le possibili consistenze del testo e di ogni intreccio inconsueto palpabile e impalpabile. E ci interessano tendenziose riletture, non ascolti inerti, innaturalmente stereotipati:
Scrive ancora Manica: “Nessuna istanza di principio fa del poeta uno che ne sa di più sul proprio testo, perché quel che è dato conoscere è il testo stesso, il suo tonfo sordo e la sua deflagrazione in corpi e secoli”.
Sul celebre passo del Faust, Jacques Lacan, il più oscuro psicanalista freudiano, ha fatto crescere una metafora felice: “se qui c’è una verità, essa si trova ovunque, e dovevamo spillarla da un punto qualsiasi alla nostra portata, come il vino nella Taverna di Auerbach”.
Può capitare che questa verità ebbra sia un trionfo dei sensi che si conoscono tramite sinestesia e multimedialità, come centri nervosi di una letteratura che cerca la propria forma, senza più la certezza di averne una, ma con la certezza contraria di poterle avere tutte.

1987


2 commenti:

  1. A proposito invece del numero monografico dedicato ad Antonio Pizzuto, è ancora acquistabile?

    RispondiElimina
  2. Quel fascicolo è da tempo introvabile, ma forse la speranza di recuperare qualche copia c'è !

    RispondiElimina